Negli ultimi mesi, una vicenda autorizzativa nella Regione Lazio ha riportato all’attenzione un tema da tempo dibattuto: i lunghi tempi per l’ottenimento delle autorizzazioni all’esercizio delle attività sanitarie e le strategie adottate dagli operatori per evitare i conseguenti ritardi organizzativi.
Il caso riguarda un soggetto giuridico, una società di capitali, che aveva presentato domanda di autorizzazione come presidio ambulatoriale per prestazioni mediche specialistiche. Per evitare i lunghi tempi di attesa relativi alla conclusione dell’iter amministrativo, che mediamente nel Lazio si attestano tra i sei e gli otto mesi, con punte fino a quasi un anno, la società, nelle more, aveva concesso in sublocazione le singole stanze ai professionisti che esercitavano (e gestivano) l’attività medica in autonomia, comunicando l’inizio attività ai sensi della DGR n. 447/2015.
L’Ufficio regionale competente ha però rigettato l’istanza di autorizzazione all’esercizio del presidio ambulatoriale, osservando che per il medesimo immobile era stata trasmessa Comunicazione di inizio attività da parte di più studi medici e che, pertanto, in forza del contratto di sublocazione commerciale, la società non godeva più della disponibilità dell’immobile per il quale aveva chiesto l’autorizzazione all’esercizio.
La Regione Lazio, con la DGR 447/2015, aveva inteso semplificare l’attività amministrativa, distinguendo meglio tra tipologie di studi professionali non soggetti ad autorizzazione, per prestazioni considerate a minore invasività, e strutture sanitarie più complesse, sempre assoggettate al regime autorizzativo.
I funzionari regionali, richiamando quanto disposto dal Regolamento Regionale n. 20/2019, all’art. 14, comma 4, ossia: “È vietata la gestione di una struttura o di suddivisioni della stessa da parte di soggetti distinti”, hanno rimarcato come l’istanza di autorizzazione ex L.R. 4/2003 e la comunicazione ex DGR 447/2015 non possono coesistere nello stesso arco temporale, pena la violazione del divieto di gestione della struttura fisica (l’immobile) da parte di più “soggetti distinti”.
L’effetto concreto è che la strategia amministrativa di sublocare i locali ai professionisti nell’attesa della conclusione dell’iter autorizzativo non può più essere adottata. Tale soluzione, peraltro, non nasceva da un intento elusivo della norma, bensì dall’esigenza di avviare una struttura sulla quale erano stati sostenuti rilevanti investimenti economici: la norma regionale del Lazio impone, infatti, di richiedere l’autorizzazione all’esercizio solo a lavori ultimati e con le apparecchiature acquistate, costringendo il titolare a fronteggiare lunghi tempi di attesa per l’ottenimento del provvedimento e per il conseguente avvio dell’attività, durante i quali bisogna comunque sostenere i canoni di locazione, i leasing e tutti gli altri oneri di gestione.
Il procedimento autorizzativo regionale prevede, tuttavia, delle tempistiche ben scandite dal Regolamento n. 20/2019:
20 (venti) giorni per il controllo formale della documentazione da parte della direzione regionale;
60 (sessanta) giorni per la verifica in loco dei requisiti da parte della ASL competente per territorio;
10 (dieci) giorni per la trasmissione del parere della ASL alla direzione regionale;
10 (dieci) giorni per l’adozione del provvedimento regionale di autorizzazione all’esercizio.
Il termine massimo per la conclusione dell’intero procedimento amministrativo sarebbe comunque di 120 giorni dalla data di ricezione della richiesta del soggetto interessato. Tuttavia, tale termine ha natura ordinatoria, non perentoria: la sua inosservanza non comporta conseguenze giuridiche gravi se non rispettato, servendo soltanto a regolare l’attività amministrativa e ad indicarne le tempistiche normali di decorso.
La normativa di settore ha evidenziato, con il riordino della disciplina in materia sanitaria (D.Lgs. n. 502/1992 e s.m.i.), una duplice componente che incide sull’esercizio dell’attività sanitaria: un aspetto soggettivo (il soggetto che gestisce l’attività sanitaria) e un aspetto oggettivo (la struttura in possesso di determinati requisiti minimi strutturali, tecnologici e organizzativi).
Un utile termine di paragone proviene dalla Regione Emilia-Romagna (L.R. 22/2019 e DGR 1919/2023). In tale contesto, l’oggetto dell’autorizzazione è esplicitamente la struttura fisica e il provvedimento di autorizzazione, unico sul piano formale, può essere articolato in provvedimenti separati riguardanti strutture fisiche distinte ovvero aree organizzative interne, purché dotate di autonomia operativa, anche se collegate dalla comune utilizzazione di servizi generali.
Qualora nella stessa sede fisica esercitino la propria attività più aziende o professionisti, il provvedimento riporterà l’indicazione di tutti i soggetti coinvolti, precisando chi assume la responsabilità complessiva della struttura ai fini dell’autorizzazione.
In questo modo, viene contemperata l’esigenza di flessibilità gestionale con quella di garantire e individuare un’univoca responsabilità per la struttura sanitaria.
La strada individuata dalla Regione Emilia-Romagna di consentire più autorizzazioni all’esercizio all’interno di una stessa struttura è sicuramente più equilibrata e accettabile per gli operatori sanitari. Il caso della Regione Lazio evidenzia, invece, come, nonostante i tentativi di semplificazione, persistano rigidità che mal si conciliano con i tempi di avvio e con i forti investimenti economici necessari alle imprese sanitarie.
La sfida per il legislatore regionale sarà, quindi, quella di coniugare la certezza del diritto con la sostenibilità economica ed organizzativa delle strutture sanitarie, evitando che la burocrazia diventi un ostacolo all’erogazione delle prestazioni sanitarie ai cittadini.
A cura di Andrea Gianmarco Tuzio
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